giovedì 7 febbraio 2013

Che ora è (1989)

di Ettore Scola


Regia: Ettore Scola. Soggetto: Ettore Scola. Sceneggiatura: Ettore Scola, Beatrice Ravaglioli, Silvia Scola. Musica (composta, orchestrata, diretta, eseguite composizioni al piano): Armando Trovaioli. Fotografia: Luciano Tovoli. Scenografia e Arredamento: Luciano Ricceri. Costumi: Gabriella Pascucci. Montaggio: Raimondo Crociani. Aiuto Regista: Franco Angeli. Operatore di Macchina: Stefano Ricciotti. Direttore di Produzione: Franco Cremonini. Organizzatore Generale: Giorgio Scotton. Produzione Italia/Francia: Mario e Vittorio Cecchi Gori - Group Tiger Cinematografica/ Studio El -Gaumont Production. Interpreti: Marcello Mastroianni, Massimo Troisi, Anne Parillaud, Renato Moretti, Lou Castel. Durata. 93’ – Colore. Girato per gli interni a Cinecittà e per gli esterni a Civitavecchia. 


Ettore Scola scrive e dirige una storia che se fosse letteratura avrebbe lo spessore di un racconto, ritrae una giornata della vita di padre e figlio, sfruttando lo schema di Una giornata particolare (1977) e confidando sulla bravura degli attori, costruisce una commedia teatrale piuttosto gradevole. Un padre (Mastroianni), avvocato romano di successo, si reca a far visita al figlio (Troisi), laureato in lettere indeciso sul futuro, che fa il militare a Civitavecchia, e trascorrono insieme una piovosa giornata di provincia. Scola è bravo a non dare niente per scontato, cercando di non far pronunciare mai frasi epocali e retoriche ai protagonisti. La crisi nel rapporto padre - figlio viene fuori dagli eventi, dalle situazioni, dai ricordi, mai da verbosi dialoghi. Tutt’altro. La parte dialogata del film, molto intensa, serve proprio a dimostrare che padre e figlio si vogliono bene anche se non hanno molto da condividere e non riescono a comunicare. La tecnica del piano sequenza si presta a raccontare una simile storia costruita sulle doti di due grandi attori, con poche incursioni dei protagonisti secondari. La suggestiva fotografia di Luciano Tovoli immortala un paesaggio marino e la decadenza spettrale di una città di provincia. Il padre è istrionico, estroverso, fuma, mangia in abbondanza, incurante dei problemi di salute, fa progetti per un figlio che non vuol saperne dei sogni altrui e che forse non ne possiede neanche di propri.


Il padre ascolta le sirene del porto e rammenta la guerra, le corse per conquistare un posto sicuro nei rifugi, ricorda i tedeschi, gli ebrei. Per il figlio le sirene non sono né tristi né allegre, ma rappresentano soltanto un suono, non risvegliano ricordi, si limitano ad annunciare l’arrivo dei traghetti e di alcuni amici pescatori con cui gioca al calcio la domenica. A un certo punto il discorso cade sulla fidanzata del figlio che l’ha lasciato, lo tradiva, per lei era un uomo inconcludente. Il padre ha lo stesso giudizio sul figlio, ma il regista non lo dice subito, lascia che sia la storia a rivelarlo. Padre e figlio pranzano insieme in uno squallido ristorante vicino alla stazione, il primo parla dei suoi regali: un appartamento, un’auto nuova, il vecchio orologio del nonno; il figlio mostra di gradire soltanto l’ultimo dono. Non vuole far parte dei progetti del padre ma desiderio costruirsi il suo mondo.


Torna alla luce la storia di un vecchio amore del padre e il tormento dei suoi tradimenti, quando si esprime con un giovanilistico “allucinante al massimo”. Pennellate di pura poesia in un testo lirico, narrato in punta di penna, fotografato con dolcezza e accompagnato dalle suadenti note di Armando Trovaioli. “Solo in provincia si sente ancora qualcuno fischiare”, dice Mastroianni. E racconta come un tempo si facevano complimenti alle ragazze modulando un fischio. Il figlio osserva le rughe del padre mentre parla della guerra, analizza con dolcezza i segni della sua vecchiaia. Padre e figlio al Luna Park, sulle giostre come fossero bambini, raccontano i loro sogni, ma è il padre il più entusiasta, parla dell’America come se fosse un paese fantastico, il luogo ideale per fare lo scrittore. “In America non ci si ferma mai!” esclama. “Bello” dice il figlio “ ma io non voglio fare lo scrittore”. E nemmeno andare in America, dirà dopo. Le ambizioni del figlio sono minori, si accontenta di vivere in provincia, anche se agli amici racconta che vorrebbe andare in Islanda, un posto magico conosciuto sui libri del padre quando era bambino.


Scola ci consegna due modi diversi di vedere la vita, senza giudicare, senza prendere posizione, analizza il conflitto padre - figlio, racconta la diversità ma non indica la strada da percorrere. In fondo, sembra dire, hanno ragione entrambi, si tratta di due mondi che divergono, due modi di affrontare la vita che non si incontreranno mai. Il regista cita Il tempo delle mele 3 (1988), interpretato da Sophie Marceau, con una sequenza che è cinema nel cinema, ambientata in una saletta di provincia con pochi spettatori. La crisi del cinema di fine anni Ottanta - già affrontata in Splendor (1988) - sta tutta in queste immagini: sale un tempo stracolme, adesso registrano poche e annoiate presenze.


Entra in scena la nuova ragazza del figlio (l’attrice francese Parillaud), il padre si rende conto che si tratta soltanto di una relazione superficiale, basata sul sesso, senza impegni. Forse  la parte più debole della pellicola, di sicuro quella costruita con maggiori forzature e poca spontaneità. Il vero mondo del figlio è il bar del porto, dove aiuta il gestore a fare i caffè, si è fatto un sacco di amici pescatori, gioca al totocalcio e si sente a suo agio in mezzo a così tanta varia umanità. Tra i pescatori un irriconoscibile Lou Castel, nel ruolo del muto un po’ stranito, che dicono abbia perso voce e ragione dopo aver tirato su un pesce enorme, esposto nel bar. Le piccole cose del quotidiano sono la vita del figlio, ma il padre non può capire e nel finale struggente glielo dice in faccia. Il regista evita sempre il rischio della retorica. Scola fa commedia perché racconta la vita, con il sorriso sulle labbra, ma senza negare momenti tristi, piccoli drammi interiori, sofferenze, incomprensioni. “Allora, tu resti qui. A fare i caffè! Ma mi facci il piacere!”, grida il padre citando Totò. Padre e figlio sono sempre più lontani, vicini soltanto per l’amore che li lega, che è sempre esistito, nonostante tutto. Da piccolo il figlio aveva soggezione del padre, ma cercava di imitarlo, avrebbe voluto essere come lui. “A parlare con un estraneo che ci vuole? È parlare con un padre che è difficile. E poi chi l’ha detto che padre e figlio si devono parlare?”, dice Troisi. Battuta molto vera, di una sintesi letteraria perfetta.


La lite padre - figlio sul futuro è destinata a non portare a niente, se non a rivangare vecchi errori, tradimenti, una famiglia che sembrava perfetta ma che non lo era. “La passione tra marito e moglie svanisce, purtroppo”, dice Mastroianni. La giornata tra padre e figlio termina in treno, con Mastroianni e Troisi che si guardano, sorridono, giocano a chiedersi l’ora, attendono la partenza. Tutto è come prima. Ognuno torna alla sua vita dopo una giornata servita a entrambi per capire qualcosa del loro passato e avere un’idea vaga di ciò che prospetta il futuro. Che ora è sarebbe piaciuto a Cesare Zavattini, perché sembra una commedia d’impianto neorealista, basata sul pedinamento di due personaggi da parte di un’inclemente macchina da presa che racconta una giornata qualunque della loro vita.


L’interpretazione autentica di Ettore Scola, contenuta nell’intervista allegata al dvd della pellicola è molto interessante. “Che ora è lo ricordo come un film partorito da un altro: Splendor. Avevo conosciuto Troisi in teatro, lui aveva già fatto molti lavori di successo come regista, mi piaceva l’idea di lavorare con lui e anche l’attore napoletano si trovava bene a essere diretto, faticava meno di quando doveva fare il regista, anche se i miei film avevano meno successo dei suoi. Ha fatto tre film con me (Splendor, Che ora è, Il viaggio di Capitan Fracassa), ma il legame forte tra me, lui e Mastroianni è nato durante la lavorazione di Splendor, un film sul cinema, sulla morte di una piccola sala di provincia a vantaggio dei multisala. Tra Mastroianni e Troisi era nato uno strano rapporto padre - figlio, dove il padre era Massimo, più giovane ma riflessivo, e il figlio era Marcello, un uomo più anziano ma che amava vivere intensamente. Mi venne in mente l’idea di fare Che ora è, proprio perché avevo voglia di girare un film con loro due, con due attori così bravi e affiatati. Per questo forzammo un po’ la sceneggiatura per giustificare la napoletanità di Troisi e la romanità di Mastroianni, insolita tra padre e figlio. Il secondo aveva vissuto con la madre a Napoli, mentre il padre era sempre stato assente, a Roma, quindi il figlio aveva acquisito dialetto e vizi tipici di un napoletano. Tra i due attori nacque una grande amicizia, Marcello era un po’ succube di Massimo, più serioso e meno vitale. Forse tutti e due si stimavano così tanto che avrebbero voluto essere l’altro. Massimo ammirava l’interesse per la vita e la voglia di lavorare senza sentire la fatica di Marcello. Mastroianni apprezzava il lavoro certosino di Troisi, l’arte di sintetizzare le battute, la capacità di ridurle quasi a una smorfia. Che ora è può definirsi un film doppio, con due protagonisti, ma per me ha il valore di una pellicola che ricorda due amicizie perdute. Vista la mia età, purtroppo, sono molte. Ricordo Gassman, Sordi… Ho avuto anche una disavventura con Civitavecchia per questo film, sono dovuto andare a un incontro con la popolazione, su invito del sindaco, per chiarire che non avevo niente contro Civitavecchia. La battuta che offese gli abitanti fu quella pronunciata da Mastroianni: “Vuoi vivere a Civitavecchia? Che ci fai in un posto come questo?”. Per me Civitavecchia era il simbolo della provincia, di un luogo lontano dalla città, dove la vita scorre noiosa e con ritmi blandi. Un avvocato dinamico come il padre non poteva concepire di passare la vita in una provincia sonnolenta. Per il figlio, invece, più indolente e riflessivo, era il massimo. Che ora è - come molto del mio cinema, direi quasi tutto, persino le opere in costume e corali - è un film intimista, sul tipo di Una giornata particolare, interpretato da due personaggi. Il mio cinema è di piccola introspezione, racconto le esistenze della povera gente che subiscono i grandi eventi storici, la vita quotidiana delle persone travolte dalla situazione generale. Mi interessano i grandi eventi pubblici, storici, solo quando si riflettono negli affetti di una persona. Come molti altri miei lavori, anche questo è un film aperto, perché a mio parere il cinema non deve dare messaggi, tirare conclusioni, ma soltanto suggerire riflessioni. I miei film presentano sempre una zona, un corridoio per i ricordi, non sono film affermativi, non mi piace dare il colpo di grancassa finale, preferisco una musica che si spegne a poco a poco. Impiego un anno, un anno e mezzo a scrivere un copione, quindi facciamo delle letture con gli attori, per certi film corali come La cena abbiamo passato qualche mese a leggere. Una volta finito non c’è spazio per improvvisare, non credo alle cose inventate sul set, anche perché a monte c’è una grande mole di lavoro”.


Pino Farinotti concede tre stelle: “Padre e figlio non hanno molto da dirsi, ma poi concludono che ci si vuol bene anche senza capirsi”. Morando Morandini assegna due stelle e mezzo, mentre il gradimento del pubblico si ferma a due: “Affidato, più che a un intreccio, a una situazione, il film ha un andamento ondivago e un ritmo lasco, nonostante la ricchezza di spunti, sottofondi, scatti d’umore. Sul tema della difficoltà di comunicazione tra due generazioni è un veicolo per due prove d’attore a confronto, indebolito da un improbabile Massimo Troisi, troppo anziano e troppo napoletano per la parte”. Due stelle anche per Paolo Mereghetti: “Con qualche pecca (Troisi troppo vecchio per la parte e troppo napoletano per essere figlio di Mastroianni, le forzature della sequenza con la fidanzata), un film sulla difficoltà di comunicare, che sembra costruito soprattutto sulle capacità recitative dei due attori”. Massimo Troisi e Marcello Mastroianni vincono la Coppa Volpi ex aequo a Venezia.


Ho visto Che ora è nel 1989, in una piccola sala di provincia che adesso ha fatto la fine del cinema Splendor. Mi piacque, ma la trovai troppo pesante, un po’ lenta e macchinosa. Mi sbagliavo. Rivista nel 2013, a quasi venticinque anni di distanza, dimostra che il buon cinema è come il vino, migliora con il passare del tempo…

Per vedere alcune sequenze:


Gordiano Lupi

Nessun commento:

Posta un commento