domenica 24 agosto 2014

Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975)

di Pier Paolo Pasolini


Regia: Pier Paolo Pasolini. Soggetto e Sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini. Collaborazione alla Sceneggiatura: Sergio Citti. Aiuto Regista: Umberto Angelucci. Assistente alla Regia: Fiorella Infascelli. Fotografia: Tonino Delli Colli. Montaggio: Nino Baragli. Edizione: Enzo Ocone. Assistenti Montaggio: Ugo De Rossi, Alfredo Menchini. Segretaria Edizione: Beatrice Banfi. Fotografo di Scena: Deborah Beer. Effetti e Rumori;: Luciano Anzellotti. Operatori alla Macchina: Carlo Tafani, Emilio Bestetti. Aiuto Operatore: Sandro Battaglia. Scenografia: Dante Ferretti. Costumi: Danilo Donati. Trucco: Alfredo Tiberi. Direttore di Produzione: Antonio Girasante. Organizzatore Generale: Alberto De Stefanis. Produttore: Alberto Grimaldi. Case di Produzione: Pea - Produzioni Europee Associate s.p.a. (Roma), Les Productions Artistes Associés s.a. (Parigi). Consulenza Musicale: Ennio Morricone. Pianoforte: Arnaldo Graziosi. Edizioni Musicali: Eureka. Teatri di Posa: Cinecittà. Interpreti: Paolo Bonacelli, Umberto P. Quintavalle, Giorgio Cataldi, Aldo Valletti (Signori). Caterina Boratto, Helene Surgere, Elsa De Giorgi, Sonia Saviange (Narrattrici). Sergio Fascetti, Antonio Orlando, Franco Merli, Lamberto Book, Bruno Musso, Claudio Cicchetti, Umberto Chessari, Gaspare di Jenno (Vittime maschi). Giuliana Melis, Graziella Aniceto, Dorit Henke, Benedetta Gaetani, Faridah Malik, Renata Moar, Antinisca Nemour, Olga Andreis (Vittime femmine). Tatiana Mogilansky, Giuliana Orlandi, Susanna Radaelli, Liana Acquaviva (Figlie). Rinaldo Missaglia, Guido Galletti, Giuseppe Patruno, Efisio Etzi (Militi). Claudio Troccoli, Maurizio Valaguzza, Fabrizio Menichini, Ezio Manni (Collaborazionisti). Paola Pieracci, Anna Maria Dossena, Ines Pellegrini, Carla Terlizzi, Anna Recchimuzzi (Ruffiane e Serve). Bibliografia e Testi citati nel film: Roland Barthes “Sade, Fourier, Loyola”; Maurice Blanchot “Lautreamont et Sade”; Simon De Beauvoir “Faut – Il bruler Sade”; Pierre Klossowski “Sade mon procaina. Le philosophe scélérat”; Philippe Sollers “L’écriture et l’exsperience des limites”.


Salò o le 120 giornate di Sodoma è il film più controverso e complesso di Pasolini. Esce postumo ma completo, nel 1975, dopo che il poeta aveva scritto l’abiura alla Trilogia della vita e un duro discorso contro il potere che implicava il rifiuto del passato inteso come “un mucchio di insignificanti e ironiche rovine”. Nella sua abiura, Pasolini non rinnegava l’erotismo giocoso e ilare contenuto in Decameron, Il fiore delle Mille e una notte e I racconti di Canterbury, ma affermava che non era più tempo di scrivere e girare  simili opere. È fin troppo facile dire che Salò è un film contro il potere e che a Pasolini la realtà storica interessa in funzione simbolica, per fare un discorso alternativo alla società contemporanea basata sul consumo, massificante e colpevole di annullare le identità. Il regista prende Le 120 giornate di Sodoma del Marchese De Sade - uno dei filosofi più aborriti e incompresi della storia -, recupera la trama a base di torture e sopraffazioni per ambientare l’azione in un castello, ai tempi della Repubblica di Salò, mentre il fascismo si dibatte tra velenosi colpi di coda. I protagonisti negativi - sgradevoli e ributtanti - sono quattro signori che decretano la cattura di nove ragazzi e nove ragazze per svolgere il ruolo di vittime predestinate. 


I soggetti prescelti vengono radunati in un castello nel corso di un atroce Antinferno, quindi si aprono i tre gironi (manie, merda e sangue) che compongono l’ossatura del film e vedono alcune narratrici intrattenere i signori che danno sfogo a una serie di depravazioni sessuali sulle vittime, condite di eccessi e torture. Pasolini non era mai stato così cupo e tragico, del tutto senza speranza, perché - a parte poche sequenze d’amore e rapidi sprazzi sentimentali - nel film tutto è orrore eccessivo e sconvolgente. I quattro sgradevoli protagonisti privi di morale conducono il gioco, mentre una pianista suona pezzi classici che accompagnano il racconto di storie lussuriose. Molti nudi, soprattutto maschili, sequenze ributtanti che si faticano a vedere (tutto il girone della merda), torture ed eccidi ripresi nei particolari come se fosse un film di pura exploitation


Molti critici hanno voluto vedere Salò - insieme a Salon Kitty e Il portiere di notte - come la pellicola che ha contribuito a far nascere il sottogenere del nazi-erotico. Salò è ben altra cosa che una raccolta di torture e di eccessi fine a se stessa, ma possiamo dire che i film del sottogenere nazi hanno imitato alcune sequenze estreme esibite nel campionario pasoliniano. A nostro parere il vero film che fa nascere il nazi-erotico è Salon Kitty di Tinto Brass, molto più vicino come trama e motivazioni a tale genere di cinematografia. Salò presenta molto sesso ma tutto è privo di erotismo, al contrario della Trilogia della vita il sesso è cupo, tragico, imposto, le vittime piangono, soffrono e subiscono violenze carnali. “Non c’è nulla di più contagioso del male”, fa dire Pasolini a un torturatore. “Noi vorremmo ucciderti mille volte fino ai limiti dell’eternità, se l’eternità potesse avere dei limiti”, aggiunge il cupo personaggio, citando De Sade.


Il film procede tra lezioni di depravazione, masturbazioni, suicidi e dichiarazioni politiche che giustificano la violenza esibita: “I fascisti sono i veri anarchici. La sola anarchia è quella del potere”. Un finto matrimonio vede un corteo nuziale composto da ragazzi nudi ma la consumazione viene impedita per far posto alle voglie dei signori, prive di ogni sentimento. “Senza spargimento di sangue non si dà perdono”, diranno, giocando sulla citazione confusa tra Baudelaire e Nietsche. Molto cupa la sequenza in cui ragazzi e ragazze sono condotti come cani al guinzaglio a mangiare in ciotole maleodoranti mentre una vittima viene ferita alla bocca per colpa di chiodi nascosti nella polenta da un aguzzino. Tristezza infinita nei volti dei ragazzi, lacrime e sangue, in una totale assenza d’amore. 


Il girone della merda è terribile e dissacrante, coprofagia esibita senza freni, ragazzi costretti a cibarsi di escrementi in sequenze oltremodo disturbanti. “Niente deve andare perduto”, affermano i persecutori. Un orribile matrimonio tra un signore e un ragazzo vestito da sposa prelude a un disgustoso pranzo a base di escrementi che si conclude con un bacio tra due bocche sporche di merda. “Il limite dell’amore è quello di avere bisogno di complici”, dirà un altro signore dopo essersi fatto orinare in faccia. Il concorso di bellezza tra ragazzi e ragazze elegge il miglior deretano del gruppo mentre gli aguzzini filosofeggiano: “Il gesto sodomitico accetta le norme sociali per infrangerle”, aggiungendo che il piacere del carnefice è simile ma è più difficile reiterarlo. Il girone del sangue è un eccesso continuo, aperto da un rapporto omosessuale esplicito e una vera erezione di un ragazzo, ma anche dai continui tradimenti delle vittime che si denunciano a vicenda per tentare di salvarsi la vita. Tutto inutile. I destini sono già decisi. 


Un gesto politico (il pugno chiuso) di un ragazzo scoperto ad amoreggiare con la serva (Ines Pellegrini) prelude alla sua uccisione e dà il via alle macabre esecuzioni dei colpevoli. Un altro simbolo era stato esibito in apertura, quando un ragazzino veniva giustiziato a Marzabotto, sede di uno storico eccidio nazifascista. “Dio, Dio, perché ci hai abbandonato!”, grida una ragazza insieme ai prigionieri legati in un mastello pieno di escrementi. I signori osservano torture ed esecuzioni seduti alla finestra, alternandosi nel ruolo di esecutori, con un binocolo, mentre si eccitano con i loro ragazzi preferiti. Nel frattempo assistiamo al suicidio della pianista, che fino a quel momento aveva soltanto suonato, senza interferire e senza dire una parola.


L’orrore ha superato il livello di guardia. Nelle torture finali il cinema di exploitation contamina la poetica pasoliniana, tra lingue tagliate, impiccagioni, vulve squartate, membri divelti, castrazioni, marchiature a fuoco, teste mozzate, stupri, coiti anali, assurdi balletti davanti ai morti. Nel finale c’è chi ha visto una luce di speranza (Italo Calvino, Corriere della Sera, 30/11/1975), perché due collaborazionisti accendono la radio, si chiedono il nome della ragazza e cominciano a danzare. In mezzo a tanta tragedia assistiamo a una rapida esibizione di normalità, una parziale uscita dagli inferi, un gesto che fa presagire a un cambiamento. Interpretazione opposta - più condivisibile alla luce dell’intera pellicola - di Adelio Ferrero (Il cinema di Pier Paolo Pasolini, Marsilio, 1994), che vede nel gesto dei due militari soltanto il segno dell’abitudine e dell’accettazione di uno status quo, di come si possa dimenticare l’orrore solo chiudendo la finestra e pensando ad altro.


Salò è un film teatrale, girato quasi tutto in interni - se escludiamo i notevoli piani sequenza iniziali e le scene finali a base di torture - dal tono poetico durante le narrazioni erotiche che contrasta con le terribili sequenze di morte, violenza e stupro. Molte citazioni filosofico - letterarie, metafore politiche per condannare non solo il fascismo, ma ogni tipo di potere, che impone modelli preconfezionati e spersonalizzanti. Scenografie accurate di Dante Ferretti, fotografia ocra e anticata di Tonino Delli Colli, scrittura colta di Pasolini e Citti, effetti truculenti disturbanti al punto giusto. 


Salò è un film che si presta a molteplici letture, persino all’ipotesi che il suo autore fosse arrivato al punto di rifiutare la vita e se ne chiamasse fuori con un tragico testamento culturale. Non crediamo che sia il modo corretto d’interpretare la pellicola, vero e proprio atto di accusa contro il potere, contro l’arroganza amorale di chi comanda, impone regole e non lascia vie di scampo. Pasolini usa un testo estremo di De Sade per contrastare un modello economico consumista e globalizzante che da sempre rifiuta, ma lo fa con energia vitale e con passione politica, senza rinunciare alla lotta. Il poeta esprime tutta la sua contrarietà a modelli di omologazione sociale che comportano un genocidio culturale e persino un esproprio della naturalezza di volti e corpi. 


Pasolini esprime una dolorosa e irritata separazione dal presente con un’operazione poetica radicale, estremista e sconvolgente. Si tratta di una poesia disillusa e sgraziata, autodistruttiva, scandalosa e scandalizzante, insostenibile e disturbante. Non c’è traccia di lirismo consolatorio, né di lusinghe estetizzanti, solo squallore, dolorosa sottomissione e abissi infernali che si aprono. Salò è un Decameron decadente e privo di speranza dettato dai racconti erotici delle narratrici - puttane. I signori rappresentano l’abiezione senza limiti, la loro cultura si abbevera a Baudelaire, Proust, Nietsche, Huysmans, ma si eccitano solo con pornografia, sesso e sangue. Salò si presenta come un macabro apologo dell’impotenza al potere, una metafora del sadismo di Stato, una trasgressione ridotta a riti, infarcita di rabbia antiborghese. 


Si nota un’ispirazione e una contaminazione di modelli cinematografico - teatrali cari a Buñuel, Brecht e Jancso. Le vittime sono strumenti e oggetti di piaceri abominevoli, alcuni assuefatti, altri tristemente conniventi; esprimono volti indifesi e sgomenti, corpi umiliati e offesi, stuprati, devastati, torturati, abbattuti. Pasolini racconta una storia cupa, senza speranza, claustrofobica, efferata, amorale, angosciosa e angosciante. Un film violentemente traumatico che si propone di rompere anche con lo spettatore, sconvolgendolo con immagini insostenibili. Una fosca lettura profetica del presente, piuttosto che un’accusa sulle atrocità del passato. Un’opera interessante, da studiare senza pregiudizi, ma da far vedere solo a un pubblico preparato. 


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